- La Resistenza fu davvero una “lotta di popolo”?
Solo in parte. La partecipazione attiva fu numericamente limitata e circoscritta geograficamente. L’immagine di un’intera nazione insorta è frutto di una mitopoiesi postbellica. Gran parte della popolazione rimase spettatrice passiva, spesso più preoccupata della sopravvivenza quotidiana che degli esiti politici del conflitto.
- Quale bilancio etico dei crimini partigiani nel dopoguerra?
Dopo la Liberazione, si registrarono numerosi episodi di giustizia sommaria, vendette personali e regolamenti di conti privi di legittimazione giuridica. La “zona grigia” di questi eventi è stata per decenni elusa, rimossa o giustificata con formule retoriche (“giustizia della storia”) inadatte a uno Stato di diritto.
- È corretto parlare di guerra civile?
Sì, se si ha il coraggio di abbandonare la retorica del dualismo morale. Dal 1943 al 1945, l’Italia visse un conflitto intestino che divise famiglie, comunità, territori. La Resistenza fu guerra civile, guerra ideologica e guerra di liberazione: tutte queste dimensioni devono coesistere nell’analisi storica onesta.
- Perché il 25 aprile è diventato un simbolo ideologico?
La memoria resistenziale è stata a lungo monopolizzata da una visione egemonica, che ha trasformato la Resistenza in fondamento morale esclusivo della Repubblica. Ne è derivato un culto pubblico impermeabile al dissenso e poco incline all’autocritica, che ha prodotto una memoria selettiva e spesso autocelebrativa.
- Tutti i partigiani volevano la democrazia parlamentare?
No. Accanto a componenti autenticamente liberali e cattoliche, operarono gruppi che guardavano con favore a modelli autoritari di stampo sovietico. La Resistenza fu una coalizione di fronti, non un corpo unico, e i progetti politici dei partigiani erano spesso divergenti o persino antitetici.
- Perché le vicende delle foibe e delle epurazioni etniche sono rimaste ai margini?
Perché non rientravano nella narrazione edificante della “lotta giusta”. L’adesione di una parte della Resistenza italiana al movimento partigiano jugoslavo comportò conseguenze drammatiche per le popolazioni italiane dell’Istria e della Dalmazia. Tali pagine, rimaste a lungo oscure, sono oggi oggetto di recupero storiografico, ma faticano ancora a entrare nel racconto pubblico.
- L’antifascismo può esistere al di fuori della celebrazione rituale del 25 aprile?
Certamente. Un antifascismo maturo dovrebbe essere aperto al pluralismo, capace di convivere con il dissenso e critico verso le sue derive ideologiche. Ridurlo a liturgia annuale e a slogan vuoti lo impoverisce e lo priva della sua vitalità etica.
- Ha ancora senso una “festa civile” che tende a dividere anziché unire?
Forse è tempo di ripensare il 25 aprile non come celebrazione di una narrazione univoca, ma come occasione di memoria plurale, che accolga anche le voci rimosse, le contraddizioni e le ambiguità. Solo così può assolvere davvero alla funzione di fondamento repubblicano.
- Chi ha scritto – e tramandato – la storia della Resistenza?
In larga parte, i vincitori. E con essi, gli intellettuali, gli storici e i politici legati a precise visioni ideologiche. Il risultato è stato un racconto monolitico, in cui la complessità è stata spesso sacrificata in nome della legittimazione morale.
- Che cosa celebriamo davvero il 25 aprile?
La fine dell’occupazione tedesca? La nascita della democrazia? L’inizio di una lunga egemonia culturale? Forse tutte queste cose insieme. Ma forse è giunto il momento di abbandonare il mito e scegliere, finalmente, la verità storica integrale, con tutte le sue luci e tutte le sue ombre.